Non credevo fosse possibile, ma le storie di Robin Hobb migliorano libro dopo libro. Ho divorato La nave della pazzia, un libro bellissimo, di cui stranamente non ho nulla di cui lamentarmi! Si colloca nel mezzo della Trilogia di Borgomago, continuando da dove ci siamo lasciati con La nave della magia. Non esagero quando dico che non ha difetti, se non la tipica lunghezza e amore per il dettaglio di questa autrice, che noi fan abbiamo imparato ad apprezzare e valorizzare! Procederò parlando liberamente della trama senza segnalare gli spoiler, perché assumo che chi viene qui a leggere questo articolo abbia già letto La nave della pazzia.
Scheda del libro
Titolo | La nave della pazzia |
Autore | Robin Hobb |
Data | 1999 |
Pubblicazione italiana | 2006 |
Editore | Fanucci |
Traduttore | Paola Bruna Cartoceti |
Titolo originale |
Mad ship
|
Pagine | 736 |
Reperibilità | Reperibile in cartaceo e in ebook |
Trama
La nave della pazzia non soffre del tipico problema dei “libri di mezzo”: è un libro valido e appassionante, non un filler, non una parentesi prima di arrivare alle cose più interessanti. La Vivacia è stata catturata da Kennit, e questo cambia le carte in tavola: Wintrow deve amputare la gamba del pirata, mentre Kyle viene tenuto prigioniero. Allo stesso tempo Althea, Brashen e Ambra sistemano la nave ormai ferma da 30 anni Paragon con l’intento di recuperare Vivacia. Malta, infine, comincia il corteggiamento con Reyn, e da lì a poco il suo percorso si farà molto interessante. Questa, a grandi linee, è la trama de La nave della pazzia. Ma non solo: lentamente la storia si fa sempre più ampia e “globale”, interessando i grandi cambiamenti che stanno avvenendo a Jamaillia, Borgomago e Chalced. Mi è piaciuto molto sfruttare le prospettive dei personaggi che abbiamo iniziato ad amare per parlare in generale di politica, guerre, culture e diplomazia: questo è stato anche possibile grazie all’inserimento di alcuni punti di vista originali e nuovi…
Serilla e Cosgo
Serilla è una Compagna del Cuore di Magnadon Cosgo, il Satrapo di Jamaillia. Il suo ruolo è di consigliera fidata, sebbene sia l’unica fra le compagne a mantenere questo ruolo: attraverso di lei, scopriamo perché il governo centrale stia facendo così tanti danni. Il Satrapo è un ragazzo viziato, capriccioso e unicamente votato al piacere personale: passa tutto il tempo ad oziare, trastullarsi e drogarsi. Qui ci ho intravisto quell’intento di critica sociale tipico della Hobb: ne Il viaggio dell’assassino vediamo come Regal non sia assolutamente in grado di governare i Sei Ducati, in Borgomago abbiamo un Cosgo che non ha mai ricevuto dei limiti, delle regole durante la sua crescita, e queste sono le conseguenze. Serilla è una giovane appassionata di storia ed antropologia, infatti conosce bene la cultura di Borgomago: il governo centrale di Jamaillia non sta rispettando gli accordi intrapresi per favorire gli stati del Chalced; il suo scopo è quindi quello di far ragionare il Satrapo, purtroppo con scarsi risultati…
«È una maledizione. I mal di testa, gli intestini sciolti, la flatulenza. Qualche strega mi ha lanciato una maledizione. Perché altrimenti dovrei essere vittima di tanto dolore?» Il Satrapo si lamentò sommessamente e le appoggiò una mano sulla coscia. Serilla gli mise le dita alla base del cranio e cominciò a percorrere i punti di tensione con i polpastrelli. Sembrava esserci davvero del dolore. «Forse l’aria fresca ti farebbe bene. L’esercizio fisico è molto efficace per i problemi di intestino. I giardini sul lato meridionale del tempio sono meravigliosi. La fragranza delle aiuole di timo potrebbe alleviare il tuo dolore.» «Sarebbe più semplice che un servitore portasse qui un mazzo di timo. Non amo le giornate luminose come questa. La luce mi fa male agli occhi. Come puoi anche solo suggerire che io cammini fin là quando soffro tanto?» Quasi pigramente le alzò l’orlo della veste. Le dita esplorarono la pelle liscia al di sotto. «E l’ultima volta che sono stato nei giardini del tempio sono inciampato in una pietra irregolare del pavimento. Sono caduto in ginocchio come uno schiavo. Ho messo le mani nello sporco. Sai come detesto la sporcizia» continuò petulante. Serilla mise mano ai muscoli tra collo e spalle e li manipolò in profondità, facendolo trasalire. «Eri ubriaco, Magnadon» gli ricordò. «Ecco perché sei caduto. Lo sporco era il tuo vomito.» Il Satrapo girò all’improvviso la testa per fissarla. «E allora sarebbe colpa mia, suppongo?» chiese sarcastico. «Pensavo che il lastricato servisse appunto a rendere il pavimento uniforme e sicuro per camminarci sopra. Il mio povero intestino fu gravemente sconvolto da quella caduta. Non c’è da meravigliarsi che non potessi tenere giù il cibo. Tre guaritori concordarono con me. Ma sono sicuro che la mia coltissima Compagna sa molto di più del Magnadon Satrapo Cosgo o dei suoi guaritori.»
Reyn Khuprus
Attraverso il punto di vista del giovane corteggiatore di Malta il lettore ha una finestra nelle Giungle della Piogge, un luogo tanto favoleggiato e fantasticato ma per noi ancora poco conosciuto. Il famoso potere dei Mercanti della Giungla della Pioggia risiede in queste rovine di vecchie città, che loro esplorano alla ricerca di manufatti magici da vendere. Ad esempio, un residuo della magia degli Antichi è il jidzin, una striscia decorativa alla parete che si illumina al tocco. Ma la cosa più sorprendente e preziosa è sicuramente il legno magico, da cui si ricavano le famose navi viventi di Borgomago: Reyn sembra avere un rapporto… particolare con quel blocco enorme di legno di proprietà della famiglia Khuprus (di cui parlerò in seguito). In ogni caso, il corteggiamento fra Reyn e Malta è molto interessante, soprattutto in questa scena…
«So che è colpa mia. L’ho saputo per tutte le notti in cui giacevi qui, senza muoverti. Mi divorava come l’acqua di fiume consuma un albero morente. Ti ho quasi uccisa. Pensare a te, lì distesa, sanguinante e sola… Darei qualsiasi cosa per cambiare ciò che è successo. Sono stato stupido e ho avuto torto. Non ho il diritto di chiederlo, ma ti imploro. Ti prego, perdonami. Per favore.» La sua voce si spezzò in singhiozzi. Strinse i pugni contro il velo. Malta si coprì la bocca con le mani. Sconvolta, guardò le spalle di Reyn che tremavano. Stava piangendo. La ragazza pronunciò ad alta voce il suo pensiero sbalordito.
«Non ho mai sentito un uomo dire parole come queste. Non pensavo che fosse possibile.» In un attimo devastante, il suo concetto di base degli uomini fu riarrangiato. Non doveva percuoterlo con le parole o spezzarlo con accuse inflessibili. Reyn sapeva ammettere di avere torto. Non come mio padre, bisbigliò il pensiero traditore. Malta rifiutò di seguirlo. «Malta?» La voce di Reyn era densa di lacrime. Era ancora inginocchiato davanti a lei.
«Oh, Reyn. Per favore, alzati.» Era troppo sconvolgente vederlo così. «Ma…» Malta si stupì di sé stessa. «Ti perdono. È stato un errore.» Non aveva mai saputo che quelle parole potessero essere così facili. Non doveva trattenerle. Poteva sfogarsi. Non doveva conservare la colpa di Reyn per usarla più tardi contro di lui quando voleva qualcosa. Forse fra loro non sarebbe mai stato così. Forse non si sarebbe mai trattato di chi aveva ragione o torto, o chi controllava l’altro. E allora, di che cosa si sarebbe trattato, tra loro? Reyn si rialzò vacillando.
Robin Hobb, fine osservatrice dei rapporti umani, ci mostra come Malta sia cresciuta con una precisa idea di uomo (suo padre); ma forse non sono tutti così gli uomini, e forse c’è speranza di creare rapporti differenti da quelli dei genitori che hanno formato le nostre concezioni di relazioni.
Kennit, Wintrow e Vivacia
Vi ricordate la triade Occhi-di-Notte, Fitz e Matto? Ecco, qui abbiamo un’altra triade bizzarra formata da un pirata, un sacerdote ed una nave vivente che vivono una comunione molto singolare. Quando Wintrow amputa la gamba del pirata, permettendogli di vivere, tra i due si intensifica il legame e nasce qualcosa di magico. Non vi nascondo che ho pianto a leggere questa parte, perché l’ho trovata emotivamente molto carica.
Kennit deglutì, sentendosi la gola arida, poi spinse distrattamente il peso sul suo torace. Capelli. Capelli crespi sotto la mano, e un viso sudato. Kennit riuscì a sollevare un poco la testa per guardare. Era Wintrow. Da una sedia accanto al letto, il ragazzo era crollato in avanti su di lui. Gli occhi erano chiusi, il viso aveva un terribile colore livido e le guance erano rigate di lacrime. Wintrow piangeva per lui. Un improvviso fiotto di sentimenti confuse Kennit. La testa del ragazzo gli poggiava sul petto, rendendogli la respirazione ancor più difficile. Voleva spingerlo via, ma il calore dei suoi capelli e della pelle sotto la mano risvegliò anche una nostalgia straniera. Era come se si fosse reincarnato in quel ragazzo. Poteva proteggerlo come lui stesso non era stato protetto. Aveva il potere di allontanare le forze distruttive che un tempo avevano lacerato la sua vita. Dopo tutto, non erano così diversi. Lo aveva detto la nave. Proteggere Wintrow era come salvare sé stesso. Quel potere era una sensazione curiosa. Prometteva di saziare una fame profonda che viveva in lui senza nome da quando era ragazzo. Prima che il pirata potesse rifletterci, gli occhi di Wintrow si aprirono. Lo sguardo del ragazzo era scuro e privo di difese. Guardò Kennit con un’espressione di dolore smisurato che si fece all’improvviso meraviglia. La sua mano salì a toccare la guancia del pirata. «Sei vivo» disse in un sussurro di timore reverenziale. La voce vacillava come se avesse avuto la febbre, ma la gioia cominciò ad accendersi nei suoi occhi. «Eri in mille pezzi. Come una finestra di vetro colorato, in mille pezzi. Tante parti in un uomo. Ero sbalordito. Eppure sei tornato.» I suoi occhi si chiusero pesantemente su un sospiro. «Grazie. Grazie. Non volevo morire.»
Scopriamo molti collegamenti fra la vita di Wintrow e quella di Kennit: apparentemente, entrambi erano destinati al sacerdozio. Il padre di Kennit aveva creato un’isola felice e autosufficiente in cui vivere, purtroppo depredata dal pirata Igrot che uccise tutti e tolse la lingua alla madre di Kennit. Non sappiamo molto di come si siano evolute le cose, confido però nel prossimo libro.
Etta, Keffria e Malta
Ho messo queste tre donne insieme perché ne La nave della pazzia mettono in atto una serie di cambiamenti sbalorditivi. Malta, da ragazzina viziata e capricciosa diventa una donna che si assume la responsabilità della famiglia Vestrit, cercando di aiutare concretamente a risolvere i problemi finanziari e a salvare il padre; Keffria si propone come spia per i Mercanti della Giungla delle Piogge, un atto così coraggioso che neanche lei lo crede possibile; e infine Etta, che mi sembrava un personaggio così minore, così da tenere poco in considerazione, diventa una donna consapevole di amare e di essere amata. Tuttavia, la frase più bella di Etta per me è quella rivolta a Wintrow, molto dura eppure molto illuminante:
«Non puoi tornare indietro» gli disse Etta brusca. La voce non era cortese né scortese. «Quella parte della tua vita è finita. Accantonala come qualcosa che hai terminato. Completa o no, è conclusa. Nessuno può decidere quello che la sua vita ‘dovrebbe essere’.» Alzò gli occhi e il suo sguardo trapassò Wintrow. «Sii un uomo. Scopri dove sei adesso, e vai avanti da qui, facendo del tuo meglio con quello che hai. Accetta la tua vita, e forse sopravvivrai. Se te ne tieni in disparte, insistendo che non è la tua, non è dove dovevi essere, ti passerà accanto. Forse non morirai per tanta stupidità, ma non sarà molto diverso, per quel che servirà la tua vita a te o a chiunque altro.»
Althea e Brashen
Althea è cresciuta, si è fatta una reputazione come marinaio e ha stretto amicizia con Ophelia, una nave vivente molto intrigante. Si lega molto alla nave e alla famiglia Tenira; passa molto tempo con Grag, che la corteggia. Tuttavia, Althea non fa altro che pensare a Brashen, e a quella notte che ha condiviso con lui. I punti di vista di Grag e Althea però sono troppo distanti per ipotizzare un vero legame, e questo dialogo lo dimostra:
[…] Volevo uccidere quel bastardo. Di tutte le mascalzonate che poteva fare… ma poi Ophelia mi disse che forse provavi qualcosa per lui. Che magari eri anche un po’ innamorata di lui?» Era una domanda incerta.«Non credo» rispose piano Althea. L’ambivalenza nella sua voce la sorprese.
«E questo fa due» osservò amaro Grag. «Sai che non mi ami. Ma non sei sicura di amare lui.»
«Lo conosco da tanto» disse fiocamente Althea. Voleva dire che non lo amava. Ma come si faceva a conoscere qualcuno tanto a lungo, essergli amica per tanto tempo, e non provare un qualche affetto per lui? Non era così diverso dal suo legame con Davad Restart. Disprezzava le azioni del Mercante, eppure ricordava uno zio gentile e maldestro.
«Per anni Trell è stato un amico e un compagno di bordo. E ciò che è accaduto tra noi non cambia quegli anni. Io…»
«Non capisco» disse piano Grag. Nella voce si udiva ancora la corrente sommersa di rabbia. «Ti ha disonorata, Althea. Ti ha compromessa. Quando l’ho scoperto ero furioso. Volevo affrontarlo. Ero sicuro che tu lo odiassi. Sapevo che meritava di morire. Pensavo che non avrebbe mai osato tornare a Borgomago dopo quello che aveva fatto. Quando è tornato, volevo ucciderlo. Solo due cose mi trattenevano. Non potevo farlo senza rivelare perché lo sfidavo. Non volevo recarti vergogna. Poi ho saputo che aveva fatto visita a casa tua. Ho pensato che forse intendeva comportarsi in modo onorevole. Se avesse fatto la proposta, e tu lo avessi rifiutato… è così? È di questo che si tratta, senti qualche genere di obbligo verso di lui?» C’era la disperazione nella sua voce. Ce la metteva tutta per capire. Althea si alzò da tavola e lo raggiunse. Al suo fianco, guardò la foresta buia insieme a lui. Ombre di ramoscelli e rami e tronchi si aggrovigliavano e si ostruivano a vicenda.
«Non mi ha stuprata» disse. «è questo che devo confessarti. Ciò che accadde tra noi non fu saggio. Ma non fu violento, e fu colpa mia quanto di Brashen.»
«Lui è un uomo.» Grag parlò senza lasciare spazio a compromessi. Incrociò le braccia. «La colpa è sua. Doveva proteggerti, non approfittare della tua debolezza. Un uomo dovrebbe controllare la sua lussuria. Doveva essere più forte.» Althea era senza parole. La vedeva davvero così? Come una creatura debole e indifesa, che andava protetta e guidata da qualsiasi uomo fosse vicino a lei? Credeva onestamente che non avrebbe potuto fermare Brashen se avesse voluto? Sentì prima un abisso che si apriva fra loro, e poi una rabbia crescente. Voleva lacerarlo con le parole, costringerlo a vedere che lei controllava la propria vita. Poi, in fretta come era venuta, la rabbia se ne andò. Non c’erano speranze. Althea considerava la sua relazione con Brashen come un evento personale che aveva coinvolto solo loro due. Grag la vedeva come qualcosa che le era stato fatto, qualcosa che l’aveva cambiata per sempre. Un affronto al suo intero concetto di società. Per Althea la vergogna e il senso di colpa non venivano dall’idea di aver fatto qualcosa di male, ma dal timore che la scoperta potesse danneggiare la sua famiglia. I due punti di vista le sembravano radicalmente diversi. Con una certezza profonda e improvvisa, seppe che non avrebbero mai potuto costruire insieme qualcosa. Anche se lei avesse abbandonato i sogni di una nave propria, anche se avesse deciso che voleva una casa e bambini da amare, l’immagine che Grag aveva di lei, una donna debole e indifesa, l’avrebbe sempre umiliata.
«Ora dovrei andar via» annunciò all’improvviso.
Direi che questo passaggio racchiuda l’essenza di Althea.
Draghi e serpenti
«Queste parole non hanno significato per te? Il drago e il serpente?» C’era una nota disperata nella voce di Ambra. La ragazza alzò di nuovo le spalle. «Pensaci bene» implorò Ambra. «Per favore. Ero così sicura che si trattasse di te. A volte certi sogni hanno scosso quella convinzione, ma quando ti ho rivista per strada sono stata ancora una volta sicura. Sei tu. Devi saperlo. Pensaci. Il drago e il serpente.» Si chinò in avanti sulla tavola e fissò Althea con sguardo implorante.
Qual è il nesso tra il drago e il serpente? Perché Wintrow, in uno stato di consapevolezza alterata, vede proprio un drago e un serpente? Un buon fantasy si riconosce quando c’è anche un bel mistero da risolvere, un qualcosa che inizialmente non ci spieghiamo ma che ci viene lentamente rivelato. Finalmente, ne La nave della pazzia scopriamo che i serpenti marini si “evolvono” in draghi attraverso una migrazione sul Fiume delle Piogge, dove vengono guidati dai draghi adulti ed incanalati in dei tronchi che fungono da bozzoli prima della metamorfosi. Ma qualcosa è accaduto in passato che ha sconvolto i ritmi: un cataclisma ha distrutto la città degli Antichi e dei Draghi, i bozzoli sono rimasti imprigionati sotto la terra, utilizzati come materiale per legno magico, e i serpenti hanno perso la loro consapevolezza e sono diventate creature dedite unicamente a procacciare cibo. Ma qualcosa sta cambiando, e si avverte molto la predestinazione di alcuni personaggi: è Wintrow a liberare l’oracolo sull’isola degli Altri, è Malta a liberare Tintaglia, l’ultimo drago al mondo. Ma com’è possibile che sia l’ultimo drago? E quelli liberati da Veritas? Nient’altro che simulacri…
. «C’è una grande porta nel muro meridionale. Gli Antichi creavano la loro arte qui, in questa stanza. Plasmarono sculture viventi della mia specie, nella pietra di memoria. I vecchi le scolpivano qui, al riparo dal vento e dalle intemperie. Poi morivano nelle sculture, ed esse assumevano le loro vite. La porta si apriva, i simulacri emergevano alla luce del sole e volavano sulla città. Vivevano per breve tempo, poi i ricordi e la falsa vita svanivano. C’era un cimitero per loro, nelle montagne. Gli Antichi la consideravano arte. A noi sembrava divertente vederci copiati nella pietra. Quindi lo tollerammo.»
Ecco come Robin Hobb prende un cliché tipico del fantasy, i draghi, e lo rielabora in forma nuova e originale! Ma la questione dei simulacri ci porta ancora più lontano…
Identità
«E questo è ciò che hai provato tu» aggiunse la nave al suo pensiero. «Tu, che hai il tuo sangue. Almeno possiedi il tuo corpo, i tuoi ricordi e la tua identità. Puoi rifiutare Kennit e dire: ‘Non sono io’. Io no. Non sono altro che legno, impregnato dei ricordi della tua famiglia. L’identità che chiami Vivacia è una che mi sono creata da sola, pezzo per pezzo. Quando il sangue di Kennit è filtrato in me, non ho potuto rifiutarlo. Proprio come la notte della rivolta degli schiavi, quando un uomo dopo l’altro colava dentro di me, e io non potevo impedirlo. «La notte in cui tutto quel sangue fu versato… Immagina di essere inzuppato di altre identità, non una volta o due, ma dozzine di volte. Crollavano sui miei ponti e morivano, e mentre il loro sangue penetrava in me mi rendevano il serbatoio di ciò che erano stati. Schiavo o membro dell’equipaggio, non faceva differenza. Sono venuti da me. Tutto ciò che erano, lo hanno aggiunto a me. A volte, Wintrow, è troppo. Percorro i sentieri a spirali del sangue, e so chi erano, in dettaglio. Non posso liberarmi da quei fantasmi. La sola influenza più potente è la tua, perché tu mi possiedi doppiamente: con il tuo sangue filtrato nel mio fasciame e la tua mente legata alla mia.» «Non so cosa dire» ammise Wintrow debolmente. «Pensi che già non lo sappia?» rispose Vivacia con amarezza.
Cosa sono queste creature ibride chiamate navi viventi? Hanno una loro identità propria oppure sono solo un accumulo di ricordi indistinto? Trovo molto affascinante che Robin Hobb abbia portato nei suoi libri queste tematiche così intricate e di difficile risoluzione. Una nave vivente è una creatura autonoma, indipendente, che esiste a prescindere da tutto, oppure non può fare altro che reagire ad una serie di impulsi e ricordi che non sono propri? Non penso ci sia una risposta a questa domanda, però c’è una nave vivente che ci dà la sua chiara e netta risposta:
«Non capite?» Una risata sottile. «Nemmeno io. Dopo molto tempo ne vennero altri. Erano simili e diversi da quelli che avevano cercato di salvarci. Li chiamammo con gioia, sicuri che finalmente fossero venuti a liberarci dall’oscurità. Ma non ci sentirono. Ignorarono le nostre voci sottili, liquidandoci come meno che sogni. Poi ci uccisero.» Shreever sentì la speranza farsi piccola dentro di lei. «Sentii le grida di Tereea. Non potevo capire quello che stava accadendo. Era con noi; poi non c’era più. Passò qualche tempo. Poi attaccarono me. Gli attrezzi morsero il mio bozzolo, spaccandolo mentre era ancora spesso e pesante, forte dei miei ricordi. Poi…» Ora era perplesso. «Gettarono la mia anima sulla pietra fredda, dove morì. Ma i ricordi rimasero intrappolati negli strati del bozzolo. Mi segarono in assi e crearono un nuovo corpo. Mi rimodellarono a loro immagine, raschiando fino a plasmare un viso e una testa e un corpo come i loro. E mi immersero nei loro ricordi, finché un giorno mi svegliai con un’altra identità. Anello d’Oro, mi chiamarono, e così divenni. Un veliero vivente. Uno schiavo.»
La schiavitù tra Jamaillia e Chalced
La schiavitù non ha mai attecchito nei Sei Ducati (dove si trasferisce Burrich, appunto), ed è vietata dalla legge a Borgomago, eppure l’influenza degli stati del Chalced si fa sentire, soprattutto a Jamaillia. Ecco che lo schiavismo si diffonde in modo silenzioso anche a Borgomago, sebbene non tutte le famiglie lo approvino, come ad esempio la famiglia Vestrit. Ronica è ben consapevole che se prendesse degli schiavi le costerebbe meno di pagare regolarmente i domestici e i braccianti, eppure cerca di resistere (con molte difficoltà). Lo stesso Wintrow viene marchiato come schiavo, un gesto di Kyle che non ci si riesce proprio a spiegare. Ed ecco che è Kennit, un pirata, a voler abolire la schiavitù e ad attaccare le navi schiaviste, mentre Kyle vuole usare la Vivacia come nave che trasporta schiavi; impossibile non notare questo parallelismo! Sono d’accordo con la prospettiva di Wintrow che vede Kennit come uno “strumento nelle mani di Sa”: Kennit, nel suo egoismo e nella sua mania di controllare le cose, effettivamente sta apportando un cambiamento epocale (di cui scorgiamo solo gli inizi ne La nave della pazzia).
Stupro
Infine, un accenno su un argomento molto difficile da affrontare in generale, lo stupro. Qualcosa l’avevamo intravista nella prima trilogia (Stornella subisce una serie di abusi pesanti, raccontati in terza persona); qui abbiamo Serilla che viene gettata dal Satrapo nelle mani del capitano della nave, il quale la stupra di continuo. Le scene sono terrificanti, vissute in prima persona:
Estinsero i suoi ultimi pensieri di resistenza o vendetta. Non pensava neanche più a sopravvivere. La sua mente si ritirò, lasciando il corpo a funzionare da solo. Dopo qualche tempo aveva imparato a mangiare gli avanzi dei pasti del capitano. Lui non pranzava spesso in cabina, ma non le forniva altro cibo o bevande. Non le era rimasto alcun capo di vestiario intatto, così trascorreva la maggior parte del tempo rannicchiata nel letto. Non pensava più. Quando tentava di uscire brancolando dalla confusione trovava solo alternative orribili. Ogni pensiero era paura. Quel giorno, forse, l’avrebbe uccisa. Forse l’avrebbe data all’equipaggio. Forse l’avrebbe tenuta per sempre, per il resto della sua vita, in quella cabina. Peggio di tutto, poteva restituirla al Satrapo, un giocattolo rotto che non lo divertiva più. Prima o poi l’avrebbe messa incinta. E poi? Il presente che sopportava aveva distrutto irreparabilmente ogni futuro possibile. Non voleva pensare.
Non sappiamo se le schiavi sessuali subiscono questo tipo di trattamento e non sappiamo se nel Chalced questa pratica disumana è la norma; di sicuro per quest’uomo è la prassi. Neanche il Satrapo si sconvolge più di tanto degli effetti del suo potere assoluto, e le sue parole indicano il ruolo e il valore delle donne per la sua cultura:
«Cosa vuoi da me?» chiese imperiosamente il Satrapo. Tentò di sedersi, poi sprofondò di nuovo con un lamento. Piagnucolò senza più alcun tono di comando: «Perché mi tratti così male?» Sembrava talmente incredulo che Serilla fu spinta a rispondere. «Mi hai data a un uomo che mi ha stuprata di continuo. Mi ha picchiata. Lo hai fatto di proposito. Sapevi cosa stavo passando. Non sei intervenuto. Finché non hai avuto bisogno di me, non ti sei curato di quello che mi succedeva. Ti ha divertito!»
«Non mi sembra che ti abbia fatto tanto male» dichiarò il Satrapo in tono difensivo. «Cammini e parli e sei crudele con me come sempre. Voi donne ne fate un affare di stato! Dopo tutto è ciò che gli uomini fanno alle donne per natura. È ciò per cui sei stata fatta, ma hai rifiutato di accordarmi!» Strappò con petulanza i pelucchi delle coperte e borbottò: «Lo stupro è solo un’idea creata dalle donne per fingere che un uomo possa rubare ciò di cui avete una scorta infinita. Non ne hai ricavato un danno permanente. È stata una burla villana, lo ammetto, e mal considerata… ma non merito di morire per questo.» Girò la testa verso la paratia. «Senza dubbio quando sarò morto ti capiterà di nuovo» commentò con soddisfazione infantile. Solo la verità dell’ultima asserzione impedì a Serilla di ucciderlo in quel momento.
Conclusione
Robin Hobb come al solito propone una narrativa intensa e coinvolgente che ci stimola molte riflessioni sull’amore, sulla morte, sul potere, sui rapporti, sul maturare come esseri umani o sul regredire ad esseri infimi. Non posso che continuare col prossimo libro, sia perché ormai devo sapere come si svilupperanno le cose, sia perché dopo mi aspetta una nuova trilogia su Fitz. Grazie Robin per le tue storie.
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