Recensione – I salici ciechi e la donna addormentata di Hakuri Murakami
Stimolato dalla recente edizione speciale da edicola delle opere di Murakami, ho deciso di avventurarmi nuovamente nei meandri onirici di questo scrittore, questa volta preparato: avendo già letto una sua raccolta di racconti, so cosa posso aspettarmi. I salici ciechi e la donna addormentata consta di 24 racconti, tutti definiti dai lettori con vari aggettivi quali onirico, assurdo, inverosimile, bizzarro, surreale e così via. Inizialmente avevo pensato di fare un breve commento per ogni racconto, ma probabilmente risulterei dispersivo e noioso. Per cui ho deciso invece di focalizzarmi solo su alcuni racconti specifici (andrò molto nel dettaglio spoilerando il contenuto principale e il finale!).
Titolo | I salici ciechi e la donna addormentata |
Autore | Haruki Murakami |
Data | 2006 |
Pubblicazione italiana | 2013 |
Editore | Einaudi |
Traduttore | Antonietta Pastore |
Titolo originale | めくらやなぎと、眠る女 [Mekurayanagi to, nemuru onna] |
Pagine | 400 |
Reperibilità | Reperibile online e in libreria |
I salici ciechi e la donna addormentata è una raccolta eterogenea: alcuni rimangono impressi, altri sono dimenticabili. Murakami spesso si inserisce con digressioni e si rivolge al lettore, dando informazioni sul suo modo di scrivere e di pensare la narrativa. Alcune storie sono appena abbozzate e non hanno una vera conclusione, altre invece sono più potenti e ben definite. Non vi aspettate una narrazione che va da un punto A a un punto B: Murakami è un maestro degli slice of life, di dettagli di vita quotidiana descritti minuziosamente, e di eventi bizzarri. Non aspettatevi neanche dei racconti allegri: la morte e il dolore permeano queste storie, sfociando in alcuni casi nel macabro.
I salici ciechi e la donna addormentata
Il primo racconto dà il titolo alla raccolta stessa. Il protagonista è un giovane di 25 anni tornato al paese di origine a causa della morte della nonna: la zia gli chiede di accompagnare il cugino più piccolo in una clinica per una visita con nuovo dottore. Il ragazzo ha un problema a un orecchio che a volte lo rende completamente sordo. Arrivati al piccolo ospedale, il protagonista si lascia invadere dai ricordi di quando andava ancora a scuola e accompagnava un amico a fare visita alla fidanzata ricoverata. L’elemento bizzarro è inserito in una storia inventata dalla ragazza, che inventa i “salici ciechi”, piccoli alberi dalle radici profonde che “si nutrono del buio”. Tali alberi sono carichi di un polline ambito dai moscerini, che si infilano nelle orecchie di una donna, la fanno addormentare e poi la mangiano dall’interno. Forse è il problema alle orecchie del cugino a fargli tornare in mente questo macabro racconto dell’adolescenza: quando il ragazzo gli chiede di controllare le sue orecchie, sembra quasi voglia trovare qualche traccia di quegli insetti. Presente e passato si sovrappongono continuamente per culminare, nel finale, in un deciso risveglio:
La mia coscienza tornò alla realtà, mi alzai dalla panchina. Questa volta ci riuscii senza problemi. Sentivo di nuovo sulla pelle il dolce vento di maggio. Poi, per qualche secondo, mi ritrovai in uno strano luogo. Un luogo buio dove le cose visibili non esistevano, e quelle invisibili sì. Ma alla fine davanti a me si fermò, ben reale, l’autobus numero 28, le sue porte ben reali si aprirono. Dovevo salirci, per andare altrove.
– Tutto a posto, – dissi posando una mano sulla spalla di mio cugino.
Birthday Girl
Questo racconto è introdotto da un intervento di Murakami rivolto al lettore:
Voi cos’avete fatto il giorno del vostro ventesimo compleanno? Lo ricordate? Io sì. Il 12 gennaio 1969 – una giornata buia e fredda – per guadagnare qualcosina lavoravo come cameriere in un caffè. Non avendo trovato nessuno che mi sostituisse, finii col passare una giornata squallida, dall’inizio alla fine, una giornata che in quel momento mi parve un presagio di tutta la mia vita futura.
Anche la protagonista di questo racconto, quando era ragazza, ha trascorso il suo ventesimo compleanno in modo poco entusiasmante. Era piovuto dal mattino alla sera. Ma chissà, forse all’ultimo momento l’aspettava una sorpresa.
La protagonista non riesce a prendersi un giorno libero per il suo compleanno ed è costretta a fare un turno serale al locale dove lavora. Il proprietario, che nessuno ha mai visto eccetto il direttore, vive nell’edificio e si fa mandare ogni sera la cena: sempre solo ed esclusivamente pollo. Casualmente, il direttore si ammala giusto il giorno del compleanno della ragazza, a cui viene richiesto di portare la cena al proprietario, che si scopre essere un vecchietto raffinato vestito elegantemente. La ragazza e il vecchio si intrattengono un po’ a chiacchierare nell’appartamento che sembra essere uno studio. La protagonista rivela di compiere 20 anni quel giorno, e il proprietario si offre di esaudire un desiderio qualsiasi.
Io vorrei, – proseguì posando entrambe le mani sulla scrivania e facendo un profondo respiro, – insomma, vorrei esaudire un suo desiderio, mia bella fata. Qualunque cosa sia. Quello che vuole. Se c’è qualcosa che desidera, ovviamente.
– Qualcosa che desidero? – ripeté la mia amica con voce secca.
– Qualcosa che vorrebbe fosse diverso, signorina. Che spera si verifichi. Se ha un desiderio, uno soltanto, io lo voglio esaudire per lei. Questo è il regalo che posso farle per il suo compleanno. Ma gliene è concesso uno solo, quindi ci rifletta bene –. Il vecchio sollevò in aria un dito. – Uno soltanto. Una volta espresso il suo desiderio, non potrà tornare indietro.
Il desiderio proposto lascia perplesso il vecchietto: non preferirebbe forse diventare bellissima o ricchissima?
– È ovvio che vorrei diventare più bella, più intelligente, più ricca. Però se questo genere di desiderio si avverasse, chi può dire quali conseguenze porterebbe, alla fine? Magari per me si muterebbe in un danno. Per il momento io non ho ancora afferrato il senso della vita. Sul serio. Non capisco bene come funzioni.
Non sapremo mai quale fosse il desiderio espresso: la protagonista non lo rivela, sebbene si dichiari soddisfatta della sua vita.
Lo specchio
Lo specchio è un racconto più o meno horror, nel senso che in una certa misura vuole creare tensione nel lettore; ritorna un tema tipico come la perdita dell’identità. Se il racconto in sé mi lascia indifferente, è la parte metanarrativa che mi comunica qualcosa, quantomeno del modo di ragionare di Murakami:
Le esperienze che avete vissuto e che mi avete appena raccontato, credo si possano classificare in due categorie. Alla prima appartengono le storie in cui il mondo della vita e quello della morte, in virtù di qualche energia, a un certo punto vengono in contatto. Ad esempio le storie di fantasmi e roba del genere. Nella seconda categoria troviamo invece quei poteri e quei fenomeni che hanno a che fare con il paranormale. Cioè la capacità di predire il futuro, le premonizioni e via dicendo. Grosso modo ci sono dunque questi due gruppi.
In sintesi, mi sembra che le persone rientrino sempre e solo o nell’uno o nell’altro. Cioè chi è in grado di vedere fantasmi ogni tanto ne vede, ma non ha mai premonizioni, mentre chi ha premonizioni non vede mai fantasmi. Il perché non lo so, ma ogni individuo ha una delle due tendenze, in modo ben determinato. Questa perlomeno è la mia impressione.
Il folclore dei nostri tempi Preistoria del capitalismo avanzato
Anche qui il racconto è preceduto da un’introduzione; in questo caso l’argomento sono gli anni ’60 e il concetto di verginità, esplicato in seguito dalla storia di una giovane coppia. I protagonisti sono due ragazzi popolari a scuola, brillanti e simpatici. Il narratore conosce il ragazzo, quindi scopriamo la loro storia dal suo punto di vista: i due si incontrano… in Italia. Piccola curiosità:
All’inizio parlammo dell’Italia. Ci lamentammo del fatto che i treni erano sempre in ritardo, che si passava troppo tempo a tavola.
Dopo un po’ l’amico si sbottona e racconta la sua storia. Lui e Yoshiko conoscono a scuola: hanno un background simile e interessi simili, e trascorrono tantissimo tempo insieme. Non fanno sesso, però: solo baci. Lui vorrebbe, ma lei lo frena con dei paletti. Il discorso di Yoshiko quando lui le chiede di sposarlo è illuminante:
– Non è possibile, – disse Yoshiko. – Noi non possiamo essere marito e moglie. Io sposerò un uomo di qualche anno più vecchio di me, tu una donna di qualche anno più giovane di te. È così che funzionano queste cose. Una donna diventa matura più in fretta di un uomo. E invecchia più in fretta. Vedi, tu ancora non sai bene come va il mondo. Se ci sposassimo subito dopo l’università, di sicuro il nostro matrimonio sarebbe un fallimento. Non potremmo continuare a essere felici come ora. Io sono innamorata di te, questo è ovvio. Non sono mai stata innamorata di nessun altro in vita mia. Ma sono due cose diverse, – «sono due cose diverse» sembrava essere un’espressione ricorrente nei discorsi di lei.
Adesso noi siamo liceali, e viviamo in un ambiente protetto. Il mondo là fuori però è differente. È un mondo grande, reale. E noi dovremo essere in grado di affrontarlo.
Anche qui, Murakami sembra sottolineare la condizione della donna giapponese (in maniera neutra e impersonale), chiara alla ragazza, meno chiara al ragazzo. “Le cose vanno così, noi possiamo giocare a fare i fidanzatini ma il mio destino è segnato” sembra dire Yoshiko. L’autore conclude il racconto sostenendo che non si possa trarre nessuna lezione da esso: è un tipo di storia che accade a tutti.
Coltello da caccia
Continuano le storie slice of life: in Coltello da caccia, una coppia trascorre qualche giorno in villeggiatura al mare. In particolare, il protagonista si sofferma su due persone, una madre e un figlio sulla sedia a rotelle, che passano le loro giornate osservando il mare in silenzio. L’ultimo giorno. l’uomo incontra di notte il ragazzo in riva al mare, e la discussione che ne segue è… surreale.
– Posso chiederle un favore? Può provare a tagliare qualcosa, per cortesia? – mi domandò tutt’a un tratto.
– Tagliare qualcosa? Ad esempio?
– Qualsiasi cosa. Quello che c’è qui intorno, non ha importanza. Io vivo inchiodato su questa sedia a rotelle, non ho molte cose da tagliare a portata di mano. Allora lo faccia al posto mio, per piacere, tagli qualcosa lei con il coltello.
Non avevo ragione di rifiutare. Presi il coltello e colpii più volte un ramo di palma lì vicino, finché non lo feci cadere sezionando in diagonale un pezzo di corteccia. Poi raccolsi una delle tavolette da nuoto in polistirolo posate accanto alla piscina e la recisi in due. Il coltello tagliava a meraviglia, ancora meglio di quanto mi fossi immaginato.
– È fantastico! – esclamai.
– Lo ha fatto a mano un artigiano. Se devo essere sincero, mi è costato un occhio della testa.
Puntai anch’io il coltello verso la luna, e lo guardai. Nella luce del plenilunio, la lama sembrava il germoglio di una pianta feroce che avesse appena spaccato la superficie del suolo. Qualcosa che con ogni probabilità connetteva il nulla con l’eccesso.
– Tagli, tagli di più! – mi esortò il giovane.
Presi a tranciare tutto quello che mi capitava sotto tiro. Le noci di cocco cadute a terra, le enormi e spesse foglie delle piante tropicali, il menu affisso all’ingresso del bar, dei pezzi di legno portati sulla spiaggia dalla risacca. Quando non trovai più nulla da tagliare, iniziai a muovermi con lentezza, come se facessi Tai-Chi-Chuan, e a dare silenziosi fendenti nell’aria notturna. Non c’era nulla che ostacolasse i miei movimenti. La notte era profonda, il tempo flessibile. Una profondità e una flessibilità che la luce della luna esaltava.
Mentre tranciavo l’aria a grandi gesti, all’improvviso mi tornò in mente la donna grassa che avevo incontrato nel pomeriggio. Quella che era stata hostess all’United Airlines. Avevo l’impressione che il suo corpo bianco e grasso fosse diventato una nebbia informe che fluttuava intorno a me. La boa, il mare, il cielo, gli elicotteri, persino i piloti… ogni cosa era contenuta in quella nebbia. Cercai di tagliare anche loro, ma avevo perso il senso della distanza e la punta del coltello li mancava sempre di pochi centimetri. Che fossero presenze illusorie? O forse ero io un’illusione… Ma che importanza poteva avere? Tanto l’indomani non sarei più stato lì.
Storia di una zia povera
Storia di una zia povera è la star di questa antologia. Il titolo suggerisce che Murakami abbia una storia da raccontare a proposito di una zia povera, magari una parente lontana, o magari una parente di un amico. E invece no.
– Penso di scrivere qualcosa su una zia povera, – dissi alla mia amica. Sì, sono uno che cerca di scrivere romanzi.
– Una zia povera? – fece lei un po’ sorpresa, guardandomi per qualche secondo con occhi inquisitori. – Perché? Come mai vuoi scrivere su una zia povera?
Il perché veramente non lo sapevo nemmeno io. Per qualche ragione, le cose che catturano la mia attenzione mi sono sempre incomprensibili. […] – A proposito, – disse, – una zia povera tu ce l’hai?
– No, – risposi.
Ottima premessa: non c’è nessuna zia povera di cui parlare. Superato questo ostacolo iniziale, il narratore ci parla in generale della definizione di zia povera, delle sue caratteristiche:
Può darsi che nemmeno voi abbiate una zia povera. In tal caso questa è una caratteristica che abbiamo in comune. Una caratteristica ben strana. Come condividere uno stagno in una quieta mattina.
Sono convinto però che in qualche matrimonio, la figura di una zia povera l’abbiate vista. Come in ogni libreria c’è un libro che non è mai stato letto e in ogni comò una camicia mai indossata, così in ogni ricevimento di nozze c’è una zia povera.
Nessuno si sogna di presentarla, e quasi nessuno le rivolge la parola. Non le viene chiesto di fare un discorso. Se ne sta semplicemente seduta al tavolo, come una vecchia bottiglia di latte. Beve il suo consommé a piccoli sorsi maldestri, tirando un po’ su con le labbra, mangia l’insalata con la forchetta per il pesce, non riesce a prendere bene i fagioli e alla fine è l’unica a rimanere senza il cucchiaino per il gelato. Se va bene, il suo regalo finirà in fondo a un armadio, ma è più probabile che nel corso di un trasloco venga gettato via insieme a qualche ridicolo trofeo coperto di polvere.
Nell’album che ogni tanto gli sposi sfogliano, c’è anche la sua foto, sulla faccia un’espressione incoraggiante come quella del cadavere di un annegato.
– E questa chi è? Questa qui con gli occhiali, in seconda fila…?
– Oh, figurati, nessuno… – risponde il giovane marito. – È solo una zia povera.
Non ha nemmeno un nome. È una zia povera, chiuso l’argomento.
In genere i nomi, prima o poi, finiscono nell’oblio.
E bravo Murakami che riesce a farci ridere con le sue similitudini sulle zie povere. Ma non è finita qui. Il protagonista non ha storie da raccontare e ci parla dell’argomento in modo generico: sembra che la cosa finisca qua. E invece…
Forse si trattava di una sanzione creata apposta per me. Perché attaccata alla mia schiena c’era una piccola zia povera.
Fu verso la metà di agosto che mi accorsi della sua presenza. Non perché qualcosa in particolare me l’avesse segnalata. Semplicemente a un certo punto me ne resi conto: sulla mia schiena c’era una zia povera.
Non era affatto una sensazione sgradevole. Non pesava molto, né mi fiatava sul collo alito cattivo. Aderiva perfettamente alla mia schiena, come un’ombra sbiadita. Nessuno, a meno che non osservasse con attenzione, si accorgeva che era lì. I gatti che vivevano con me, i primi due o tre giorni la guardarono con diffidenza, ma quando capirono che non aveva intenzione di portare disordine nel loro territorio, accettarono la sua presenza.
Beh, siamo abituati alle trovate bizzarre di questo autore, no? La zia povera si concretizza sulla schiena del protagonista, che diventa ben presto oggetto di attenzione mediatica. Sembra che ognuno ci veda qualcosa di differente: chi ci vede la madre, chi il cane morto…
A giudicare dall’effetto che produceva su diverse persone (io naturalmente non potevo vederla) la zia povera che portavo sulla schiena non aveva un aspetto definitivo, ma cambiava forma a seconda dell’immagine mentale di chi la guardava.
Uno dei miei amici sosteneva che si trattava del suo cane, un akita morto nell’autunno precedente per un tumore all’esofago.
– Aveva già quindici anni, era agli sgoccioli. Ma morire di un cancro all’esofago, poveraccio…
– Gli era venuto un tumore all’esofago?
– Sì, esatto. Brutto modo di morire. Per quel che mi riguarda, non ci tengo proprio. Si lamentava tutta la giornata. Ma non riusciva quasi a emettere suoni, era debolissimo. Io volevo farlo abbattere, ma mia madre era contraria.
– Perché?
– E chi lo sa? Perché non voleva averlo sulla coscienza, forse… – disse il mio amico per nulla divertito. – Ad ogni modo l’abbiamo nutrito artificialmente ed è vissuto altri due mesi. Sul pavimento del ripostiglio. Non ti dico l’odore!
Il mio amico rimase qualche secondo in silenzio.
– Non che valesse granché, quel cane. Era un fifone, abbaiava a tutti quelli che vedeva… Non era di nessuna utilità, sapeva soltanto far rumore e una volta si è preso anche la scabbia.
Annuii.
– Sarebbe stato molto più felice se fosse nato cicala, invece di cane. Avrebbe potuto cantare finché voleva senza dar fastidio a nessuno, e non si sarebbe beccato un tumore all’esofago.
Invece era un cane, e se ne stava sulla mia schiena, un tubo di gomma infilato in bocca.
Quell’annuii sintetizza perfettamente un atteggiamento tipicamente giapponese: una cordiale approvazione di fronte a parole terribili. Un amico parla male del cane morto, evidenziando soltanto i problemi che causava, e il protagonista semplicemente annuisce.
Il racconto prosegue (è uno dei più lunghi de I salici ciechi e la donna addormentata), tra digressioni filosofiche sulla natura della zia povera e una scena in treno raccontata perché sì: alla fine, la zia povera sparisce. Penso che questo sia uno dei migliori racconti di Murakami, che racchiude tutto dentro di sé: l’elemento bizzarro, i dialoghi pacati, la quotidianità descritta nel dettaglio. Inoltre è un racconto con un inizio e una fine ben delineati, una rarità in questa antologia!
In un posto dove potrei trovarlo
Ecco un racconto in cui i canoni tipici di un genere vengono sovvertiti, con risultati… bizzarri. Una donna si presenta da un detective per la scomparsa del marito, che apparentemente è sparito dopo essere stato dalla madre, che vive in un appartamento nello stesso palazzo della coppia. Il detective non si fa pagare: ha una specie di codice d’onore particolare. Insomma, il protagonista si reca nel condominio per raccogliere indizi, inizia a parlare con gli altri inquilini, tra cui un uomo che fa jogging, un vecchio e una bambina. Le sue indagini non portano a nulla: la donna che lo ha ingaggiato lo chiama qualche giorno dopo per informarlo che il marito è stato ritrovato in stato confusionale alla stazione. Fine.
La pietra a forma di rene che si spostava ogni giorno
– Un uomo, nella vita, incontra solo tre donne davvero importanti, – gli disse il genitore. Né una di più, né una di meno.
Era un’affermazione categorica. Detta in tono noncurante, eppure inconfutabile. Come quando si osserva che la terra impiega un anno a girare intorno al sole. Junpei ascoltava in silenzio. Sentendosi dire di punto in bianco una cosa del genere, per lo stupore lì per lì non seppe cosa ribattere.
– D’ora innanzi è probabile che tu conosca molte donne, – continuò suo padre, – ma se ti metti con quella sbagliata, farai una cosa inutile. Meglio che non lo dimentichi.
In seguito a quel discorso, mille domande si affollarono nella giovane mente di Junpei. Suo padre aveva già incontrato quelle tre donne? Sua madre era una delle tre? In tal caso, cos’era successo con le altre due? Però non osava chiedere spiegazioni.
La pietra a forma di rene che si spostava ogni giorno è un buon racconto che bilancia elementi verosimili ed elementi fantastici. Junpei è ossessionato da quel discorso del padre: quali sono state le donne giuste nella sua vita? Se n’è lasciata sfuggire qualcuna senza accorgersene? L’impatto di questa “verità” è tale che dopo qualche mese di frequentazione lascia ogni ragazza che presenta qualche difetto.
A diciotto anni Junpei lasciò la famiglia per frequentare l’università a Tokyo e da allora strinse relazioni sentimentali con diverse donne. Fra di loro, una in particolare fu «davvero importante» per lui. Ne era convinto allora e ne è convinto adesso. Prima di riuscire a manifestarle in modo concreto i propri sentimenti, però – per natura, era piuttosto lento a esprimere le cose –, la ragazza aveva sposato il suo miglior amico. E ormai era madre. Di conseguenza andava esclusa dalle opportunità che la sorte gli offriva. Junpei dovette farsene una ragione e rinunciare per sempre a lei. Così ormai nella sua vita solo altre due donne potevano avere importanza – sempre che accettasse per valida la teoria del padre.
E la prima ce la siamo giocata. La seconda donna importante è Kirie, una donna misteriosa che incontra a una festa. Non vuole rivelare la sua professione. I due iniziano una relazione senza troppi vincoli. A un certo punto si innesta una storia dentro la storia: il protagonista racconta a Kirie il romanzo che sta scrivendo, su una dottoressa che lavora in ospedale e ha una relazione con un collega sposato. La donna, durante un viaggio, trova una pietra a forma di rene: affascinata, la porta allo studio e la usa come fermacarte. La pietra, tuttavia, ha la curiosa abitudine di “spostarsi” per la stanza: non è qualcuno a farlo (perché dovrebbe?). A questo punto lo scrittore è arenato e non sa come proseguire la storia.
Junpei? Sai, a questo mondo tutto ha una volontà, – disse a bassa voce, come se stesse facendo una rivelazione. Lui stava già dormendo e non poteva rispondere. Le parole di Kirie nell’aria notturna persero la loro forma sintattica, mescolandosi all’aroma leggero del vino, e si insinuarono segretamente in fondo alla coscienza di Junpei.
– Per esempio, il vento ha una volontà, – proseguì lei. – Noi di solito non ce ne accorgiamo, ma a volte sì, a volte siamo obbligati a farlo. Perché il vento ti afferra e ti scuote, con uno scopo ben preciso. Vuole sapere cosa c’è dentro di te. Vuole sapere tutto. E non è solo il vento a fare così; ma ogni singola cosa. Anche le pietre. Le cose ci conoscono molto bene. Dalla testa ai piedi. A un certo punto finiamo col rendercene conto, e non possiamo fare altro che seguirle. Accettandole riusciamo a sopravvivere e diventiamo più profondi.
A volte il racconto in sé è solo una scusa per inserire una riflessione, un punto di vista particolare dell’autore, come in questo pezzo che ho citato. Insomma, alla fine Junpei finisce il romanzo e chiama Kirie per raccontarglielo, ma la donna ha cambiato numero ed è introvabile. Per puro caso, durante un tragitto in taxi, intercetta un’intervista a una donna che cammina su una fune tesa tra un grattacielo e l’altro… dalla voce, sembra proprio Kirie. Junpei va avanti con la sua vita, continua a scrivere, e realizza che Kirie era la donna giusta numero due.
Era una delle tre donne veramente importanti per lui. Un’altra opportunità perduta. Ormai gliene restava soltanto una. Eppure non aveva più paura. I numeri erano irrilevanti. Ciò che contava era la capacità di accettare una persona così com’era, finalmente lo capiva. E ogni volta doveva essere la prima e l’ultima.
Nello stesso periodo, la dottoressa si accorse che la pietra a forma di rene non era più sulla sua scrivania. Un mattino si rese conto che era sparita. E capì che non sarebbe più ricomparsa.
La scimmia di Shinagawa
Ando Mizuki è una giovane donna a cui capita di dimenticare il proprio nome. Nulla di grave, piccole dimenticanze casuali, non una crisi di identità o cose del genere. In ogni caso, per scrupolo, decide di rivolgersi a una psicologa, Sakaki Tetsuko. I colloqui si incentrano principalmente sul problema di memoria, e a un certo punto della seduta Mizuki rivela un fatto del passato, probabilmente irrilevante, relativo alla questione dei nomi. Durante l’ultimo anno di scuola, Mizuki riceve la visita di una compagna, Matsunaka Yukko, nonostante non fossero amiche: Yukko le fa un discorso strambo sull’invidia e poi le consegna un cartellino col proprio nome, avvertendo di non farselo rubare da una scimmia. Tornata a casa, Mizuki cerca i due cartellini (il suo e quello di Yukko), che aveva conservato in una scatola ma… sono spariti! La psicologa, che in questo caso curiosamente assume il ruolo di detective, ha trovato la scimmia che li aveva rubati! Ecco qui l’elemento assurdo che si inserisce in una storia che poteva essere verosimile: la scimmia parla e ha questo “brutto vizio” di fregare i nomi altrui, venendo a conoscenza del passato dei proprietari. Mizuki pretende di sapere la verità sulla sua storia, che la scimmia, un po’ titubante, le rivela:
– Ti ho detto che fa lo stesso. Voglio sapere la verità.
– Allora va bene, – sospirò la scimmia. – Parlerò. Il fatto è che sua madre non le vuole bene. Non le ha mai voluto bene, neanche quando era piccola. Per quale ragione, non lo so, ma le cose stanno così. Lo stesso vale per sua sorella, non le vuole bene neppure lei. Se sua madre l’ha mandata in quella scuola di Yokohama, è perché desiderava liberarsi di lei. Sia sua madre che sua sorella volevano mandarla il più lontano possibile. Suo padre non è affatto una cattiva persona, ma purtroppo è un debole. Per questo non ha saputo proteggerla. Così, da quando era bambina, non è mai stata amata a sufficienza da nessuno. Penso che in qualche modo l’abbia sospettato anche lei, Mizuki. Però ha rifiutato di ammetterlo consciamente. Ha distolto gli occhi da questa verità, l’ha relegata in un piccolo buco nero in fondo al cuore, ha chiuso il coperchio ed è vissuta così, cercando di non pensare alle cose tristi, di non vedere le cose sgradevoli. Ha soppresso tutte le emozioni negative. Quest’atteggiamento difensivo è diventato parte della sua personalità. Non ho ragione? Peccato che così facendo si sia preclusa la possibilità di amare veramente, dal profondo del cuore.
Mizuki non fiatava.
– In questo momento lei non ha problemi. Vista dall’esterno, la sua vita matrimoniale sembra felice. E può darsi che lo sia davvero. Però lei non ama suo marito di un amore profondo. Non ho ragione? Se per caso avrà dei figli, di questo passo credo che anche con loro si verificherà né più né meno la stessa cosa.
Mizuki non rispose. Si accovacciò a terra e chiuse gli occhi. Aveva l’impressione che il suo corpo si smembrasse. Riusciva a sentire solo l’affanno del proprio respiro.
Anche qui si può osservare un rovesciamento. Non è la psicoterapia, che grazie a un percorso lungo e graduale, permette l’emergere di alcune consapevolezze cruciali; è una scimmia a calare queste “verità” dall’alto, privando tra l’altro la psicologa del suo ruolo terapeutico. Insomma, Murakami ci consegna un investigatore che non fa il proprio lavoro, e una psicologa che si improvvisa detective (certo, con il nobile proposito di aiutare l’altro, questo è chiaro).
Conclusione
Dopo quest’antologia, mi sento pronto per affrontare un romanzo di Murakami. La mia posizione rispetto a questa raccolta è cauta: alcuni racconti meritano, altri sono poco incisivi (probabilmente è inevitabile, considerando che sono in tutto 24). Tra i racconti “realistici”, i migliori per me sono: L’aeroplano – o come lui parlasse da solo con l’aria di recitare una poesia, Il folclore dei nostri tempi Preistoria del capitalismo avanzato, I gatti antropofagi, Il settimo uomo, Tony Takitani e Hanalei bay. Questi racconti incarnano perfettamente la poetica del quotidiano, quindi gli amanti della narrativa giapponese penso possano apprezzarli. Per quanto riguarda i racconti “onirici”, a mio avviso quelli che spiccano sono: Storia di una zia povera, Splendore e decadenza delle ciambelle a cono, L’uomo di ghiaccio, La pietra a forma di rene che si spostava ogni giorno, La scimmia di Shinagawa. I salici ciechi e la donna addormentata è una raccolta che consiglio principalmente ai fan di Murakami: per tutti gli altri, è bene arrivare preparati!
Comincia la discussione